Napoli che non sorridi più

Il rientro dalle mie brevi vacanze anche quest’anno mi ha procurato un profondo malessere; lo so forse starete pensando “che scoperta!” e che riprendere la routine è sempre una cosa noiosa, monotona, odiosa. Non è questo il punto, quello che intendo è un’altra cosa, è lo scoprire come viviamo male i nostri giorni preziosi, è il riscoprire quanti pochi sorrisi siamo in grado di donare alle persone che ci scorrono davanti, di quanta scarsa attenzione sappiamo dare a chi incrocia il nostro cammino, sia se si tratta di un perfetto sconosciuto, sia se si tratta di un amico, di un parente, di una madre.

Stiamo tristemente abituandoci a vivere le nostre vite in uno stato di detenzione auto-inflitta. Cavi che si perdono sin nei meandri più oscuri, connessioni sempre più potenti ed affidabili e costosissimi smartphone solo per illuderci di essere in contatto con il mondo; emoticon sempre uguali che rischiano di sostituire le infinite sfumature che può contenere un sorriso: ci sono sorrisi ad occhi chiusi, sorrisi che bagnano gli occhi di lacrime, sorrisi che spingono una persona a decidere di starti tutta la vita accanto o che ti fanno detestare, sorrisi che fanno tanto bene e che fanno tanto male. 

Ho scoperto che ero troppo distante da cose che in fondo distavano soltanto pochi metri dai miei passi veloci di quasi ragazzo ultratrentenne, che la mia città stavo vivendola più attraverso i post di Saviano che attraverso i miei occhi, il mio naso, le mie orecchie, le mie mani. Se vuoi scoprire qualcosa non basta passarci sopra veloce. Ho preso il cellulare, la mia sigaretta elettronica ed una bottiglia d’acqua e mi sono chiuso alle spalle la porta di casa, finalmente per vivere una giornata senza meta, perché per riprendere a suonare una buona canzone, per ritrovare un po’ di armonia, ogni tanto bisogna accostare l’orecchio alla cassa e tendere e rilasciare le corde, e, se non lo si fa da un po’, bisogna anche sorridere e darsi del tempo.

Ho percorso le strade più schifose di questa città, quelle che, semplicemente con il loro esistere, fustigano ogni sorriso pallido da turista americano ed ogni speranza nera da migrante, ho schiacciato profilattici che sapevano di squallore, prostituzione, camorra e mancanza di stato. Ho visto dei fiori dove c’era ancora il sangue di un ragazzo di 17 anni, buono o cattivo chissà, morto sparato soltanto da poche ore.

Quando le strade si facevano sempre più strette, nei “vicoli” senza sole e senza legge, mi è mancata l’aria, così sono fuggito verso spazi più aperti; lì ho trovato un vecchio complesso industriale che in pochi anni di storia e di lavoro dato come mangime per polli di allevamento, è riuscito a devastare un angolo di paradiso. Ho respirato a pieni polmoni le polveri ferrose che si mescolavano con l’aria salata di un mare stupendo che pure ancora c’era, lì in fondo, eterno, sorridente. E finalmente ho riso soffiando sul castello di carta delle promesse, e sulle facce da presepe dei politici nazionali e locali.

Davanti a quell’atroce bellezza ho capito che la paura ci ammazzerà e che è finalmente giunto il tempo di smettere di seguire i consigli dei vecchi zii, di chi parla di rivoluzioni a voce bassa. Ho forse capito il tradimento che contiene la parola rivoluzione e l’ho sostituita con la parola vita.


Luigi Ventriglia
(12 settembre 2015)

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