I quattro principali atteggiamenti dei fotografi secondo Andreas Feininger
Ecco come il grande Andreas Feininger, negli
anni ‘70, suddivideva i fotografi in quattro principali categorie nel suo libro
“L’occhio del fotografo”, un’opera al contempo breve e pregna di spunti
interessantissimi, che consiglio a tutti di leggere:
“In
ultima analisi è l’atteggiamento nei confronti della fotografia a decidere dei
risultati delle immagini; e, più precisamente, è l’atteggiamento verso i due
aspetti della fotografia che si possono chiamare «arte» e «tecnica», e di cui l’immagine
fotografica è la sintesi. L’arte riguarda le cose impalpabili: idee, concetti,
opinioni, fantasia, modo di «vedere», cioè gli aspetti creativi dell’attività
fotografica; la tecnica riguarda invece i mezzi concreti e i mezzi necessari
per ottenere materialmente una fotografia. Da questo punto di vista i fotografi
si dividono in quattro gruppi fondamentalmente diversi:
1) Del primo gruppo fanno
parte coloro che s’interessano soprattutto degli aspetti tecnici della
fotografia. La loro attrezzatura è sempre la più aggiornata, i loro obiettivi
(scelti uno per uno e amorevolmente provati e sperimentati) sono più incisivi,
i loro negativi e le loro stampe sono praticamente privi di grana. Ma come
fotografi rimangono invischiati nel tecnicismo, discutendo all’infinito dei
meriti e dei demeriti dei vari «apparecchi a sistema» o dei rivelatori a grana
fine, ignorando ciò che veramente importa: le diapositive e le stampe.
Raramente, o mai, fanno una fotografia degna di questo nome.
2) Il secondo
gruppo comprende gli «artisti», prevalentemente giovani fotografi impegnati, che possiedono
una reflex monottica 35mm più un grandangolare, con cui svolgono la maggior
parte del lavoro. Il loro atteggiamento è esattamente opposto: «lasciati
andare, sentiti coinvolto, fa’ vedere le cose come sono, la tecnica è per i
tradizionalisti, sentimento ci vuole, sentimento…» Le loro fotografie sono
mosse, sgranate,confuse, immagini multiple o zoomate, come vediamo oggi su
tutte le riviste; quasi sempre immagini di persone scattate con il
grandangolare, che esprimono il punto di vista del «socialmente impegnato» in
una forma piuttosto ristretta e tendenziosa, non sempre convincente, a volte
addirittura incomprensibile.
3) Il terzo gruppo è quello dei tradizionalisti,
generalmente uomini e donne di mezza età, spesso soci di un foto club, che
sanno esprimersi tecnicamente e producono foto medie di soggetti medi in forma
tradizionale. La loro tecnica è di solito irreprensibile, le loro foto spesso
terribilmente noiose.
4) Infine ci sono due gruppi di professionisti: quelli
che fanno della fotografia per guadagnarsi la vita (fotografia commerciale,
industriale, d’architettura, pubblicitaria, ritratto, foto-ricordo) e quelli
per cui la fotografia è un complemento dell’attività professionale (scienziati,
archeologi, criminologi, funzionari di polizia, fotoincisori, cartografi,
medici, militari, eccetera). Poiché queste fotografie sono di solito
strettamente specializzate, rimane poco spazio per la fantasia, ad eccezione
forse di due categorie ben precise: i fotografi di moda e i fotoreporter, che
lavorano in un capo in cui lo stile personale è ancora apprezzato e la fantasia
ha ancora un suo valore.
Poiché
la fotografia è un’esperienza squisitamente personale, sarebbe presuntuoso da
parte mia, convinto come sono dell’importanza di un atteggiamento individuale,
suggerire a un fotografo di seguire un determinato indirizzo. Quello che posso
fare per mettere sulla buona strada un principiante è parlare del mio
atteggiamento verso la fotografia.
Secondo
me, ogni buona fotografia è una sintesi di tecnica e di arte. Nessuna di queste
due componenti è in sé più importante dell’altra, perché una foto difettosa
sotto questo o quell’aspetto non può essere «buona». C’è però una differenza:
La
«tecnica» è
relativamente «facile» e può essere insegnata poiché è «concreta»: può essere
ridotta a numeri (rapidità ASA, diaframmi, velocità di otturazione,
numeri-guida, gradi centigradi o Kelvin, minuti, secondi, eccetera), a letture
di scala (esposimetri, termometri, densitometri, temporizzatori, eccetera), a
regole specifiche («se la temperatura del bagno di sviluppo è di tot gradi, il
tempo di sviluppo deve essere di tot minuti») e così via.
E poiché ogni strumento fotografico, ogni rullo
di pellicola, ogni confezione di rivelatore sono accompagnati da istruzioni per
l’uso, adeguate e di sicuro affidamento, chiunque sappia leggerle e metterle in
pratica dovrebbe poter scattare, a mio parere, fotografie «tecnicamente
perfette».
Per usare un’analogia, la macchina fotografica è
per il fotografo quello che la macchina da scrivere è per lo scrittore o il
giornalista: uno strumento che gli permette di dare forma concreta a concetti e
idee. Come si dà per scontato che uno scrittore sia padrone della lingua, e
sappia costruire frasi e discorsi correttamente, così si deve dare per scontato
che un fotografo sappia usare gli strumenti e le tecniche del suo mestiere.
Questa analogia può essere spinta ancora oltre:
come esistono sinonimi del linguaggio fatto di parole, così esistono sinonimi
del linguaggio fatto di immagini. (…) La capacità di scegliere la parola giusta
che esprime con la massima precisione la sfumatura di significato voluta è una
delle doti di un buon scrittore o di un buon giornalista.
Analogamente, anche in fotografia la scelta della
«parola» giusta può significare la differenza tra una foto accettabile e una
inaccettabile, o tra un’immagine buona e una eccezionale. Ad esempio i
fotografi esperti possiedono vari tipi di apparecchi per scopi diversi, e vari
tipi di obiettivi e di filtri; usano diversi tipi di pellicole, rivelatori,
eccetera, e hanno sulla punta delle dita diverse combinazioni di diaframmi e
velocità di otturazione, metodi di sviluppo e stampa, eccetera, insomma tutti
gli strumenti e le tecniche più varie che producono più o meno ma non esattamente, gli stessi risultati. Sono
queste differenze sottili – questi «sinonimi fotografici» – che, scelte in
relazione a ogni problema specifico e utilizzate creativamente, possono, nel
«linguaggio delle immagini», determinare la differenza tra successo e
fallimento, tra una fotografia memorabile e una insignificante.
Possedere un «vocabolario esteso» è quindi una
dote inestimabile non solo nel linguaggio fatto di parole della letteratura, ma
anche in quello, fatto di immagini, della fotografia.
L’«arte» in fotografia, a
differenza della «tecnica», è «difficile»
e non può essere insegnata perché è astratta, riguarda cose impalpabili, è
controversa perché basata sul gusto, la sensibilità, il concetto di bellezza,
fattori condizionanti quali il retroterra culturale di una persona,
l’addestramento, l’esperienza, i pregiudizi, gli interessi, le propensioni e le
avversioni, e così via. Una fotografia che sembra bella a una persona è spesso
un cliché pittorico per un’altra, una foto stimolante per un osservatore può
lasciarne indifferente un altro.
In fotografia l’«arte» nasce dal «vedere», e il
valore è legato ai sentimenti e agli interessi. La prima domanda che un fotografo
indipendente dovrebbe porsi è: quali soggetti mi interessano?
Nessuno, infatti, può fare buone fotografie di
una cosa che non gli interessa. Buone foto di routine, sì; foto grandi e
memorabili, no.
L’interesse è un fattore indispensabile per stimolare
qualsiasi attività creativa.
In
effetti molti grandi fotografi sono arrivati alla fotografia per le strade più
diverse. Il loro interesse era la gente, i problemi sociali, l’architettura, le
ragazze, la moda, i viaggi, le avventure, particolari fenomeni della natura,
gli aspetti del colore e del movimento, e così via; ed usavano la macchina
fotografica come mezzo di registrazione, di esplorazione e di ricerca.
Anch’io
arrivai alla fotografia per altre strade: fin da ragazzo sentivo il fascino
della natura, e la mia prima fotografia rappresentava dei corvi in cerca di
cibo nella nave. Divenni quindi architetto, e le mie prime fotografie «serie» furono di
edifici: appunti fotografici di strutture che mi interessavano, in cui gli
effetti pittorici avevano una parte assolutamente secondaria.
Sono certo che chi studia fotografia spinto da
una forte motivazione, cioè s’interessa a fondo di un tipo specifico di
soggetto, diventa un buon fotografo, almeno in quel determinato campo, sia esso
la gente, la tecnologia, l’architettura, la moda, e via dicendo.
D’altra parte ho ripetutamente costatato che chi
s’interessa solo di «fotografia» non approda a nulla. Passa da una scuola
all’altra, segue corsi di fotografia, lavora come assistente di un fotografo
famoso, legge tutti i libri che si devono leggere, ha una conoscenza
enciclopedica delle cose fotografiche, possiede l’attrezzatura più recente e
sofisticata, ma non fa mai una fotografia degna di nota. È un tecnico favoloso,
sa tutto sulla fotografia, ma non sa mettere a frutto le sue conoscenze in modo
stimolante. Svolazza da un soggetto all’altro, fotografa oggi la gente e domani
in paesaggio, riprende le nature morte con lo stesso trasporto (e lo stesso
disinteresse) con cui fotografa i bambini o i cani.
Le sue foto sono ben incise, senza grana, piene
di colore, tecnicamente irreprensibili, e completamente prive di sentimento,
perché egli non sente nulla per il soggetto che fotografa, preso com’è dagli
aspetti tecnici della fotografia. La sua gloria è produrre negativi 35mm da cui
ricava stampe 40 x 50, «senza grana»…”
Commenti
Posta un commento